Archivio mensile:novembre 2013

Porto rosso

Lapo stanotte in città vi erano svariate sacche di solitudine oltre alla nostra e capannelli di persone intabarrate nelle vie a discutere e ridere addobbate con bicchieri di superalcolici e Dr. Martens tornate molto di moda. Abbiamo comunque affrontato il freddo della notte discutendo di quanto fossero state crudeli le ragazze da cui abbiamo deciso di farci fare la pelle, di quanto fossero adorabili. “Te ne rendi conto? Io la tantissimo amavo.”  Siamo arrivati fino al Caffè Stelle, lì vi si assiepano gli scrittori della nostra città, essi trovano rifugio all’interno delle vetrine e sovente bevono Porto rosso e arrotolano sigarette di Old Holborn. Abbiamo ordinato del Porto rosso per confonderci e io ho cercato di pagare con dei rubli che mi erano avanzati da un incubo. Mi hai spiegato che non era possibile e hai accettato di fare uno scambio, i miei rubli contro le tue cinque sterline sgualcite che a te ricordavano un amore esploso a due passi da Harrods. Hai arrotolato sigarette in abbondanza e la gente allora ha cominciato a credere che fossimo anche noi degli scrittori e ci ha chiesto di recitare estratti delle nostre opere, di dar prova del nostro talento, ci ha chiesto cosa ne pensassimo del nuovo metodo di scrittura interstellare biomolecolare. Per fortuna il barista vestito in corcoro ci ha tolti dall’imbarazzo offrendo a tutti un giro di grappa al gelsomino e in quel momento siamo scappati nella notte come gatti impazziti di paura. Ci rivedremo ancora una notte, in un’altra sacca imprevista di solitudine, durante un altro freddo, immersi in un presepe atipico e disumano.

L’uomo di ghisa

Io sono un supereroe. Sono l’uomo di ghisa. Come faccio a saperlo vi chiederete, ebbene, non ho alcun problema a rispondere e a soddisfare qualsiasi curiosità a riguardo. Tutto è cominciato in terza media, nel millenovecentonovantatrè, durante il rinfreschino di fine anno svoltosi presso la spettabile aula terza D dell’istituto professionale R. Gullit di Macerata. Dopo aver mangiato uno o più pasticcini, panini, pizzette, tortini, canditi, caramelle, girelle, patatine, arachidi, olive, crostatine, insalata di riso, tiramisù, calzoncini fritti e aver bevuto tanta Fanta e Coca Cola Light me ne stavo come al solito seduto al mio banco posto in prima fila, lato termosifone, proprio all’opposto della finestra grande che si affacciava sul papayo sito in giardino. I  miei compagni come al solito schiamazzavano e si rincorrevano in classe tirandosi dietro palline di carta, lapis e pezzi di gomma pane parzialmente masticata. Erano tutti adolescenti assai irrequieti al contrario di me che di solito preferivo passare la ricreazione e i momenti di cambio professore fra una lezione e l’altra seduto al banco a sbirciare con la coda dell’occhio ogni movimento di Lorenziana Bubaldi, il mio amore stellare posto in seconda fila centrale. La amavo con tutto il mio cuore di maionese e avrei così tanto voluto abbracciarla che al solo pensiero le guance mi andavano in fiamme e gli occhi si appannavano. Cristo santo quanto avrei voluto tenere per mano Lorenziana, annusare il suo collo e sbirciare sotto la sua sottana. Quanto avrei voluto vedere nei suoi occhi i segni di una irrefrenabile passione verso la mia persona e il mio corpo. Ma ciò risultava altresì tendente a impossibile dato che io a tredici anni pesavo centosei chili e venivo chiamato da tutti Culo di bue. Quel giorno alla festa mi trovavo dunque immerso nei miei sogni e alternavo le fantasie ad occhi chiusi con piccoli intervalli di realtà in cui con gli occhi stretti a feritoia scrutavo Lorenziana per trarne nuovi particolari da aggiungere immediatamente al sogno, un po’ come per riprendere ossigeno prima di una nuova immersione. Sprofondato nella mia estasi non feci caso al silenzio improvviso che ad un tratto doveva essere calato sulla classe e quando Juri Merdosi, Mirko Puttani e Danilo Maelstrom da dietro mi afferrarono per gettarmi a terra e insalsicciarmi dentro uno spesso strato di carta stagnola non riuscii ad opporre la minima resistenza, ero come una specie di cadavere con gli occhi impazziti. Quando riuscii a rimettermi in piedi vidi che tutti i miei compagni di classe si erano fatti intorno a me e ridevano, battevano le mani e urlavano: “Culo di buie è diventato di ghisa, Culo di bue si è fuso con la ghisa”. Tutti ridevano e mi indicavano, alcuni iniziarono anche a gettarmi addosso le olive avanzate e le poche pizzette che la mia fame aveva risparmiato incitandomi a finire l’opera, a ripulire anche le ultime briciole dal tavolo. Sulla porta vidi anche la professoressa Cotoletti di educazione tecnica, indossava il solito tailleur grigio e sorrideva con una mano davanti alla bocca che era solita ricamare con un rossetto lilla. Dopo il primo stupore e aver barcollato come un automa iniziai a strapparmi di dosso la mia nuova armatura di carta stagnola, partii dalla pancia e dalle braccia e scesi giù fino alle gambe. Tolsi via tutto tranne lo strato che mi copriva la faccia a cui i miei compagni di classe avevano avuto l’accortezza di praticare dei fori rispettivamente per gli occhi e per le narici tralasciando però di creare un orifizio per la bocca. Mentre stavo per disfarmi anche di questo rudimentale elmo vidi Lorenziana ridere a crepapelle appoggiata un poco alla cattedra e molto alla spalla del Puttani. Fu allora che mi fermai e decisi di non togliermi la maschera, mai più. Da quel momento sono diventato l’Uomo di ghisa e vi garantisco che nella mia cameretta tutti lo sanno che io sono un supereroe, anche il Dottor Falqui lo ha dovuto ammettere visto che da qualche settimana ho smesso di piangere quando mi fa le punture nel culo che fanno malissimo e uno normale, senza superpoteri cioè, col cavolo che ce la farebbe a non piangere.

Specchio riflesso

Dentro allo specchio stamani c’era un signore che mi guardava arrogante ed ebete, i suoi occhi erano una palese minaccia per la mia incolumità per cui ho deciso di telefonare alla polizia. Ho chiesto loro di venire a prelevare quel maledetto stronzo, quel diavolo da dentro lo specchio del mio bagno. Ho supplicato di fare alla svelta, prima che fosse troppo tardi. “Ho tanta paura.” Non sono però certo che la volante sia partita a sirene spiegate dalla centrale e sia giunta in un tempo record presso la mia dimora in laterizi forati, del resto qui non so capire che ora sia anche se un po’ sembra sera. Il poliziotto con i baffi di senape ha sfondato la porta del bagno con un calcio ed è entrato tenendo la pistola ben in vista. Dalla vasca gli ho sorriso e avrei tanto voluto mostrargli la cosa brutta che quel maledetto mi ha fatto ai polsi ma non ho potuto. Dopo un secondo sono morto e la mia faccia è crollata da un lato ed è sprofondata dentro la schiuma rossa. Credo che qui dove mi trovo adesso sia il dietro del mio specchio e non riesco a capire se sia sera o mattina.

I fiori dipinti

Dovresti comprare una coperta nuova, più pesante per l’inverno, amore, per coprire il tuo corpo e le bambole di gomma gialla, nera e blu con cui ti accompagni. L’inverno arriva arriva lo sai ma tu rispondi con un raschio della gola e un mezzo sorriso che in realtà è una smorfia e mi dici che non fa niente, che tutti alla fine ci perderemo dall’altra parte della notte e la plastica continuerà comunque a morire. Mi confessi con un battito di ciglia che hai già abortito ventisette fantocci e che ciò è accaduto perché da bambina sei stata maledetta dalle fate. L’inverno arriva arriva, dolce mio amore e il vicino della porta accanto è andato alla clinica per cercare un rimedio alla sua satiriasi. Adesso la notte non ho più nessuno con cui parlare attraverso il foro che ho praticato con un cotton fioc nella parete del bagno. Allora spengo tutte le luci e apro l’acqua della doccia, del lavandino, mi stendo sul tappetino del bagno, accanto alla cesta dei panni sporchi e poi non so che cosa accada. Le zanzare in cucina hanno finito tutta la marmellata e hanno deposto uova nere sopra i miei scaffali, dentro ai pacchi di pasta, nel sacchetto del riso, dentro le bustine del tea earl grey e nella camomilla. Brulicano le zampe di gallina nei miei sogni solitari alle quattro del mattino, sono solo dentro al mio letto in cui non so più dormire senza il brusio dei mie televisori, senza il lume delle candele al gelsomino e senza la parvenza di un corpo a respirarmi accanto. La polvere intanto mi lavora ai fianchi e vince ogni battaglia, ogni partita contro di lei è persa. Svuoto le mie settimane dagli impegni come se dovessi disinfestare una stanza dai parassiti per vincere la mia dipendenza e ritrovare il buco ma che dolore ogni volta superare la notte in mezzo ai latrati. Il mio buco, ovunque esso sia, non so come ma lo devo ritrovare e non importa se si trova sulla mia gobba arrugginita o dietro l’orecchio del mio manichino, se sta nascosto nel doppiofondo del portagioie o appena prima nel mio ultimo respiro. Devo ritrovare il mio buco affinché io possa riattraversarlo e strisciare fuori dall’altra parte per essere nuovamente me stesso. Ciao amore, dovresti comprare una coperta nuova con i fiori dipinti se possibile.

Il gioco del silenzio

Ricordo che all’asilo dopo essere stati in refettorio per il pranzo le suore ci facevano fare il gioco del silenzio e io non ero bravo perché non capivo quale fosse il motivo di quel silenzio né quando sarebbe finito. Credo che si trattasse di un espediente per prepararci al riposino pomeridiano che si svolgeva al buio della stanza delle brandine verdi. Avevo paura di quella stanza, non sapevo mai quanto tempo dovessimo restare chiusi lì dentro e mi chiedevo ogni volta se mio padre sarebbe mai tornato a riprendermi. Il gioco del silenzio mi faceva paura, le brandine mi facevano paura e anche il buio e in tutto quel silenzio mi sentivo immerso in una solitudine straziante. Allora seguivo i sentieri di mollica di pane della mia mente e cercavo di sopravvivere cercando compromessi con personaggi che inventavo e che cambiavano tutte le volte, facevo promesse, giuravo che in fondo ero buono, mi accollavo dei compiti e delle responsabilità a patto che loro facessero finire quel silenzio. Lo facevo perché sentivo di non potercela fare da solo contro le suore, il silenzio e tutta quella paura. Da poco ho rivisto una  foto di quel periodo in cui i miei occhi sono enormi, sgranati in uno stupore mentre impugno una matita e sotto al gomito ho un foglio pieno di scarabocchi tutto stropicciato. Non capivo il gioco del silenzio da bambino né il senso dell’attesa e forse quei compromessi e quelle negoziazioni frettolose condotte al termine del sentiero dei grilli in quei pomeriggi disperati adesso vanno riviste, rinegoziate. Da piccolo forse non sapevo che non si può scendere a compromessi col diavolo e con la paura perché loro si prendono tutto e non ci sono condizioni da concordare. Non c’è nessuno da tenersi buono perché nessuno è buono. Forse adesso inizio a capire il senso di quello strano gioco in cui con un dito si chiama a sedere sul posto di comando il più silenzioso affinché egli a sua volta convochi il più quieto come se il silenzio fosse un merito. Dopo quasi trent’anni, mentre osservo i ciclamini e ascolto gli ultimi rumori di autobus che giungono dalla strada forse riesco a trovare un senso a tutto ciò. Ho chiuso le imposte, sono contento che dalle mie finestre si veda il Duomo. Osservo le luci della sera e con il dito faccio il gesto di chiamarla a me, di sedersi al mio posto perché aldilà del vetro è bella e silenziosa. Osservo le luci e adesso so che aspetterò in silenzio che la notte prima o poi decida di richiamarmi a sè e di riprendersi finalmente la mia carcassa.

La pioggia l’ultima volta

L’ultima volta osservammo le foglie dalla finestra della cucina, brindammo a non so cosa con la vodka finlandese che avevi portato dai tuoi viaggi, osservammo le foglie. Poco dopo c’ero io per strada e non era proprio possibile ripararsi dal vento. Provai nel silenzio ad accendere una sigaretta per un tempo che adesso non saprei dire e non riuscii. La signora affacciata alla finestra a un tratto smise di guardare e chiuse le imposte un attimo prima che cominciasse la pioggia.

Una specie di promessa

“Cosa possiamo fare adesso”? Chiedesti quasi senza respirare. Sulla spiaggia, al freddo della sera ce ne restammo sparsi, scomposti come biglie smarrite da un bambino sovrastato da nuvole grigie. “Dimmi quando potremo parlare con calma, dopo attenta riflessione di tutto quello che ci è accaduto in questa estate sballata”. Per queste tue domande io non ho chiuso occhio per giorni ma lo stesso, mi ricordo, restammo insieme ancora per un po’, lungo le ombre della sera, seduti sulla sabbia, poco distanti da occhi che non erano i nostri, da orribili piedi di estranei addormentati e pezzi di plastica e ombre di auto ficcate nella sera. Durante i nostri sguardi tardivi ricordo anche che un ragazzo una volta ha suonato un pettine, aveva la barba che brillava con squallore sotto un sole gottoso e uno spiccato prognatismo. Penso spesso ai nostri corpi a termine, alle singole articolazioni, alle minuzie delle ossa e dei muscoli, al sangue che dentro di noi si muove e al fatto che di tutto ciò non resterà proprio niente, nessuna traccia. Non resterà niente dei tuoi denti sgargianti né dei sedili fluo della tua macchina, niente delle mie gambe. Non resterà niente neppure della salvia che mi hai indicato quel pomeriggio di Aprile in cui prima di salutarci, senza dire niente ci siamo illusi che avremmo in qualche modo mantenuto quella specie di promessa.

Fanfaroni Alfio

Mi chiamo Sergio, ho quarantasette anni e poco altro nella vita. A dire il vero ho un paio di scarpe molto belle, modello Mike Air comprate a Tivoli nel novantasette alla fiera del paguro e ho un lavoro, sto seduto alla reception di un obitorio. Quando esco dal lavoro la sera sono solitamente molto stanco per cui di rado ho voglia di uscire e comunque non è che conosca tante persone. Per la precisione conosco: Don Armando che è il parroco del paese e ci salutiamo alla messa, la Lorenza del bar sport che è bionda e la mattina mi prepara il caffellatte e Fanfaroni Alfio. Fanfaroni Alfio è un signore sulla sessantina ritratto in una foto tessera in bianco e nero che ho trovato per terra lungo la strada che corre lungo il fiume dove la sera vado a spiare alcune puttane. Ho messo la foto di Alfio in una cornicina che tengo sul comodino accanto alla sveglia e al bicchiere d’acqua per la notte. Voglio tanto bene ad Alfio perchè non mi dice mai di no e non grida, non vuole fare sempre come vuole e anzi tace e quindi acconsente sempre con i miei voleri. Anche quando l’ho informato che si sarebbe chiamato Fanfaroni Alfio ad esempio non ha avuto niente da obiettare, nè quando l’ho messo al corrente che poteva ufficialmente considerarsi la mia fidanzatina adorata. Col pennarello giallo gli ho disegnato una folta chioma di riccioli biondi da far impallidire perfino Shirley Temple. Se tutto va secondo i programmi a Giugno io e Fanfaroni Alfio convoliamo a nozze.

In strada #1

Il vecchio con la sciarpa corta fischia, mi segue da Piazza Dalmazia fino al sottopassaggio che porta fino a casa e mentre mi incammino nel sottosuolo con un tono misurato mi chiama “Scusi”. Mi fermo e lo osservo, ha gli occhi acquosi che muove in continuazione a destra e a sinistra, si sfrega all’improvviso le mani poi se ne porta una alla bocca piuttosto sdentata in un gesto inequivocabile e sussurra circospetto: “Si fa niente?” Lo fisso senza rispondere, avrà quasi settant’anni penso. Mi giro e mi avvio definitivamente verso casa. L’odore di piscia del sottopasso per un attimo fa da sfondo alla voce del vecchio che da lontano mi urla dietro: “Ti inculo?”

I lupini

Ho mangiato troppi lupini e anche alcune lumache che ho trovato a strisciare su una schiena che non era mia e allora il mio nome è stato scritto sulla metà della lavagna dei “cattivi”. Dalla parte dei “buoni” c’erano invece l’Ing. Minghelli, tutti gli angeli del Signore, i crostacei e la maestra Bruna che da bambino mi menava quando mordevo i quaderni. Adesso so che la profezia della nonna si avvererà e che il dottore verrà ad operarmi di cattiveria durante la notte mentre starò dormendo. Mi aprirà il corpo con le forbici e mi metterà le donne dentro la mente e un geometra al posto del cuore.  Mi toglierà via un pezzetto di gomito e al suo posto ci metterà Fred Buscaglione che canta in una posa retrò. Le bisce allora scapperanno da sotto il letto e scompariranno all’orizzonte, volando. Mi sveglirò guarito e per un certo periodo di tempo potrò restare a casa, senza più impegni a godermi la convalescenza, a mangiare panini, curare i baffi della mia pianta grassa Dimitri. Poi il dottore tornerà di nuovo  fra qualche tempo, senza avvertire farà bomba libera tutti e le cose che stanno nascoste dentro di me e pulsano e si contorcono voleranno tutte via attraverso una piccola finestrella che c’ho dietro al collo così io potrò andare a dormire per sempre ed essere un sacchetto.